Le persone piangevano perchè nonostante andassero in televisione non riuscissero a trovare un ragazzo. Un fidanzato. E in quell'istante mi venne in mente che i miei occhi non supportavano lacrime da molto, troppo, tempo. Era facile per una donna dire "vado coi piedi di piombo". Ma poi noi abbiamo i piedi fragili come le margherite di campo. Per noi poi è difficile fare finta di niente. Non ci riusciamo proprio ad essere forti e menefreghiste. Se ti tremano le gambe, ti tremano e basta. E c'è poco da fare. Ma mi chiedevo cosa fosse la normalità. Forse era la mia banale vita rintanata tra quattro mura a scrivere, a perdermi nei miei pensieri che toccavano il soffitto e non riuscivano ad evadere e ad andare oltre. O forse la normalità scadeva nella banalità delle poche riflessioni che le persone applicavano alla loro vita quotidianamente. Non lo so. Vero, non sapevo più niente. Pensavo a mille cose durante il giorno, cercavo di evadere la notte ma alla fine mi ritrovavo con un pugno di mosche nelle mani. Alla fine mi ritrovavo come una gazza che urlava e scappava qua e la sperando che il suo tormento interiore si placasse. Io non lo so come sarebbe stata la mia vita, ma ne ero terrorizzata. E se fossi rimasta per sempre nella solita cerchia della monotonia? Avrei preferito morirne prima e non viverla. Mi sentivo scoppiare la testa in alcuni momenti come questo. Volevo scappare, scendere di casa ed iniziare a correre all'impazzata lontano dai miei pensieri, volevo correre più veloce di loro. Ma non ci riuscivo. Ero bloccata. Aspettavo sempre che qualcuno o qualcosa si svegliasse e venisse da me. E non si poteva continuare così. Il malessere non era più qualcosa legata alla banalità dell'azione compiuta o rimasta in sospeso. Il malessere veniva da dentro, il veleno scappava qua e la e di tanto in tanto si fermava, ma c'era e non riuscivo a toglierlo. Fuori c'era il sole e dentro c'era così tanto buio che io stavo per esplodere, stavo per urlare a squarcia gola. Mi domandavo se fossi io a non capire quello che accadeva tutto attorno, o se veramente fossi sola in mezzo ai pazzi. C'era troppa indifferenza e troppa banalità in questo mondo e a me non stava più bene. Iniziavo ad odiare questa maledetta ipocrisia, iniziavo a non volermi rassegnare e quindi qualcosa cresceva dentro di me furiosa in preda all'impeto di voler uscire fuori e di farla finita. Non riuscivo più a tacere nonostante le mie labbra sembrassero incollate con la colla. Continuavo a scrivere ovunque. Scrivevo frasi campate per aria e gettate lì dove tutti potessero leggerle e non capirle. Scrivevo monologhi, scrivevo nel mio cuore pensieri che forse nessuno avrebbe mai voluto ascoltare. Ma io continuavo a farlo. Arrendersi era una scelta da vigliacchi. E io non ero così, non potevo permettermelo. Preferivo soffrire, scappare, restare sola ma non arrendermi. Proprio questo mi ha portata oggi a lasciare che una lacrima solcasse il viso e arrivasse proprio sul petto, proprio sul cuore. Era arte allora mi tremarono le mani. E smisi di piangere. Smisi di arrabbiarmi e mi affidai alle ore, al tempo, allo spazio. Forse poteva ancora sorprendermi. Forse questa pelle poteva ancora liberare sogni e scaricare emozioni, o meglio, poteva (forse) incollarsi ancora.
Mi sentivo malata. Malata di me.
Spiegami come il lume della notte,come il delirio della fantasia. Spiegami come la donna e come il mimo, come pagliaccio che non ha nessuno. Spiegami perché ho rotta la sottana: uno strappo che è largo come il cuore.
venerdì 23 marzo 2012
Era la coscienza a divorare tutto dentro.
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