mercoledì 6 novembre 2013

Ci siamo dentro l'oblò.

Essere umani, che gran fatica svegliarsi ogni giorno con la consapevolezza che quasi sicuramente niente andrà come vogliamo. Aprire gli occhi in quel momento tra la veglia e la sveglia ed essere per un'attimo felici, soddisfatti, realizzati. Per svegliarsi poi ed essere sempre negli stessi panni, sempre le stesse persone, sempre gli stessi problemi. Apriamo gli ombrelli e gli acquazzoni iniziano a cadere giù, su di noi. Lasciamo sempre che tutto sia, come se niente ci scalfisse. E dentro di noi mille tempeste si abbattono. -Come se l'acqua non riuscisse più a scivolare ma restasse grumosa dentro le nostre membra stanche. E poi il lavoro, la casa, le persone per strada, i sorrisi dei raggi di sole di tanto in tanto; e ancora le finestre aperte sulla vita, una vita che scivola via senza che la possiamo trattenere.
-È un peccato mortale non riuscire a trattenere questi attimi di vita che ci accompagnano mentre ci guardiamo allo specchio e abbiamo un'anno in più o chissà, dieci, venti, trenta in più. Le mani fredde e stanche e le caviglie gonfie, la schiena curva di lavoro, gli occhi pieni di sale come se lavorassimo per secoli di vita in una fabbrica di pesci. Come se fossimo bloccati con le mani dentro una grande impresa e solo dalle finestre piccole del capannone riuscissimo a vedere il mare, i porticati, le lunghe passeggiate dei borghesi. E all'improvviso il silenzio della solitudine, la camera vuota, il rumore del silenzio dentro le orecchie. 
Assordante direi che sia l'assonanza che risuona nella solitudine delle lenzuola gettate al vento per far posto ad un nuovo giorno. Lo stomaco si chiude, tutto tace, la luce filtra leggera da un nuvoloso novembre. Siamo in preda al panico o forse siamo semplicemente esseri umani. Ed essere umano vuol dire proprio questo, cogliere tutto, prendere ogni cosa che accade e che viene. 
Nel bene e nel male, perché siamo ancora vivi.

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